L'architettura dei prossimi anni ’20

Architetto Aparicio, quali sono le tendenze architettoniche che prenderanno piede nel 2020 e nei prossimi anni, fino al 2030?Più spazio e più natura. Più concretezza e meno moda. Più verità e meno menzogna. Il mondo dell’architettura e della progettazione dei prossimi dieci anni seguirà questi valori. Ne sono certe quattro archistar, a cui UP! ha posto cinque domande sul presente, sul futuro, sui materiali e su quello che sarà il mondo in generale, e la progettazione in particolare, dopo il Coronavirus. Le risposte di Jesús Aparicio, Paolo Zermani, Amanzio Farris e Carlo Terpolilli – tutti e quattro coinvolti, in diversi modi, nel BigMat International Architecture Award 2019, premio biennale ideato e promosso del Gruppo leader in Italia e in Europa nella distribuzione di materiali per costruire e rinnovare – lanciano spunti di riflessioni importanti e nuove proposte, per ridisegnare spazi, città e paesaggi. Con una certezza, ossia quella che non perderemo la nostra socialità, come scrivono gli architetti Richard Florida (Rotman School of Management, School of Cities dell’Università di Toronto e Schack Institute of Real Estate dell’Università di New York) e Steven Pedigo (Lyndon B. Johnson School of Public Affairs – Università del Texas ad Austin), in un articolo pubblicato sul sito del Brookings Institution di Washington: «Nessuna pandemia o peste o catastrofe naturale ha mai ucciso le città, né il bisogno dell’umanità di vivere e lavorare in agglomerati urbani. Non ci è riuscita la peste nera del XIV secolo, né l’epidemia di colera di Londra del 1850, né l’influenza spagnola del 1918 che ha falciato decine di milioni di persone in tutto il mondo. Questo perché la concentrazione delle persone nelle metropoli e le attività economiche che fungono da motore per l’innovazione e la crescita sono troppo forti».

IL PUNTO DI VISTA

BigMat e l'architettura

Il BigMat International Architecture Award (BMIAA) è giunto ormai alla sua quinta edizione (il bando del concorso uscirà a dicembre 2020), un’iniziativa fortemente voluta da BigMat, convinta dell’importanza di «sensibilizzare i territori dove operano i nostri Punti Vendita per promuovere sistemi costruttivi che sappiano intrecciare e mettere in equilibrio i principi di un costruire basato sulla sostenibilità, sull’efficienza e sul risparmio energetico, ossia, in altre parole, il “buon costruire” dove l’operato degli architetti è fondamentale, perché i loro progetti incidono, a cascata, su tutta la filiera e, naturalmente, sul comfort abitativo del cliente finale». Spiega così i valori del premio il direttore di BigMat Italia e International, Matteo Camillini, che aggiunge: «La filiera delle costruzioni è un tutt’uno che parte dalla progettazione per poi attraversare la produzione, il nostro comparto della distribuzione fino ad arrivare alla messa in opera delle nostre imprese e artigiani clienti. Come sappiamo tutti, costruire bene o costruire male hanno costi immediati molto simili, ma nel secondo caso lo scotto da pagare in termini di vivibilità, comfort, estetica e perdita di valore per le abitazioni è notevole». Per questo è nato il BMIAA, con lo scopo di conferire importanti riconoscimenti alle opere “progettate e costruite bene” (il primo premio ha un valore di 30mila euro) nei sette Paesi europei dove BigMat è presente capillarmente con i suoi oltre 900 Punti Vendita. L’attenzione del concorso oggi è rivolta sempre di più alla ristrutturazione: «Il contesto globale del mercato – spiega Camillini – negli ultimi anni ha portato a focalizzarci sempre di più sui progetti di riqualificazione e rinnovamento, sia per il drastico calo di nuove costruzioni sia per la necessità di demolizione e ricostruzione nell’ottica di creare un rammendo urbano efficiente e innovativo. A questo si aggiunge la necessità delle persone di aver uno spazio abitativo che consumi meno energia, che sia più confortevole e rispettoso dell’ambiente, in altre parole più green, con sempre maggiore attenzione a materiali che rispettano questi criteri. Per questo, nella quinta edizione del BMIAA ’21 introdurremo molte novità volte a valorizzare tutti gli aspetti appena sottolineati, una sfida che cadrà proprio nell’anno del 40° anniversario del Gruppo BigMat in Europa».

JESÚS APARICIO

Jesús Aparicio, dottore architetto e cattedratico dell’Università Politecnica di Madrid e presidente di giuria del BigMat International Architecture Award fin dalla sua prima edizione.

Architetto Aparicio, quali sono le tendenze architettoniche che prenderanno piede nel 2020 e nei prossimi anni, fino al 2030?

La moda in quanto tale lascerà il posto a domande più sostanziali e più necessarie nel campo dell’architettura. Ciò significherà maggiore sobrietà e permanenza in tutto ciò che verrà costruito. Credo, spero e desidero che il mondo dell’immediatezza lasci il posto a quello che ha causato i grandi contorni della storia e dell’universo in cui risiedono questioni di maggiore importanza. Il mondo dell’immediatezza in termini architettonici è un mondo senza spazio e senza tempo. Possiamo pensare che l’essere umano abbia smesso di essere nomade grazie alla decantazione di un insieme di conoscenze chiamato cultura, che in principio era rappresentata dall’agricoltura e dall’allevamento e, successivamente, dall’insediamento urbano. La ragione di questa concentrazione urbana deve essere cercata in tre aspetti: maggiore opportunità di lavoro, livello più elevato di servizi e maggiore facilità per le relazioni sociali. Ora, la domanda che mi viene in mente di fronte all’evoluzione dell’architettura nei prossimi dieci anni è: come rallentare, fermare e persino invertire quel movimento per ottenere un riequilibrio territoriale? Perché, in effetti, la città non è nemmeno la panacea dell’abitazione umana e in essa vi sono alcuni aspetti negativi come la solitudine, la scarsità di spazio, la pressione del tempo, l’inquinamento ambientale, acustico e luminoso, l’ignoranza di una natura che viene sostituita da prodotti trasformati e così via. Il desiderio di abitare degli esseri umani nel prossimo decennio fino al 2030 comprenderà tutto: la natura e la città.

Ci sono dei materiali che stanno prevalendo rispetto ad altri? Se sì, quali?

I progetti di architettura si concentreranno su industrializzazione/prefabbricazione, riabilitazione, bilancio energetico, paesaggio e progettazione di nuovi impianti. Pertanto, i materiali saranno di due tipi: da un lato, quelli derivati da un’industria che offre qualità e prezzo; dall’altro i materiali artigianali e irripetibili. In sintesi, spero che l’architettura sia ancora una volta il risultato dell’avanguardia e della tradizione, anche nei suoi materiali da costruzione. Inoltre, francamente, credo che non ci sarà un posto eccessivo per l’imitazione (che è ancora una declinazione della menzogna) in un futuro mondo di maggiore sobrietà, perché l’imitazione è la figlia illegittima della moda.

Si delineeranno nuovi modi di abitare, nuovi modi di fruire gli spazi?

Poiché il desiderio si accentua quando l’oggetto desiderato non è posseduto, l’uomo rurale guarda la città e, viceversa, l’uomo della città è attratto dalla natura. Da questo punto di vista, si può capire la ricerca della città da parte del mondo rurale per accedere alle sue offerte di lavoro o servizi sociali e, al contrario, il desiderio che l’abitante urbano ha verso la campagna. Ma c’è qualcosa che ha distinto queste migrazioni umane: mentre la prima (dal paese alla città) è basata sia sul bisogno sia sul desiderio, la seconda è quasi sempre basata sul desiderio. L’uomo è spinto soprattutto dalla necessità ed è per questo che il movimento migratorio stabile è stato, molte volte e fino a ora, a senso unico ossia dalla campagna alla città. L’umanità cerca in primo luogo ciò che è necessario, come già facevano i popoli nomadi alla loro alba. Tuttavia, al momento i bisogni sono cambiati ed è stata posta al primo posto la necessità per eccellenza, quella della sopravvivenza.

Iper tecnologia o ritorno al passato?

L’evoluzione umana di solito avviene grazie alle scoperte e alla tecnica che ne deriva ma esistono attualmente scoperte che ci consentono di intuire la possibilità di una svolta nelle migrazioni che ci riguardano? Sì, se pensiamo a come le infrastrutture e i mezzi di trasporto sono riusciti a ridurre le distanze dalla metà del secolo scorso a oggi, oppure a come le telecomunicazioni ci hanno permesso di parlare e di avere un accesso quasi illimitato a tutto il pianeta. Se la radio e la televisione nel corso del XX secolo hanno aperto le finestre del mondo rurale alla cultura, e anche a ciò che non è cultura, nel XXI secolo possiamo dire che questo ruolo è stato assunto dalla telefonia mobile e da internet. Ancora una volta, viene confermato, quindi, come la tecnologia sia il mezzo che consente di iniziare una nuova “Era”. Non è un caso che le epoche umane siano state definite dalle tecniche che le hanno caratterizzate (Età della Pietra, Età del Bronzo e così via). Al momento, ci sono tecnologie che accelerano ulteriormente la nostra società, aumentando la velocità di un’umanità che vuole l’ubiquità, un’accelerazione continua che, come si può vedere attualmente, non è la panacea della felicità e che sta avendo effetti collaterali sotto forma di disturbi fisici e psicologici.

Dopo l’emergenza Covid-19 il modo di progettare cambierà?

Assolutamente sì, e non cambierà solo il modo di progettare ma anche il modo di vivere. Molto probabilmente ci sarà un ritorno alla natura, dove l’uomo godrà di case più grandi e di più spazio libero. Ma sarà possibile tornare ad abitare la natura nel XXI secolo? La risposta è che non sarà possibile senza perdere buona parte dei servizi offerti dalla città e non sembra appropriato proporre di abbandonare la città a favore della campagna, perché tutto questo sembra improbabile e indesiderabile. La necessità della società, e quindi l’obiettivo dell’architettura, è di rendere cultura e natura non solo compatibili, ma anche complementari.

PAOLO ZERMANI

Paolo Zermani, architetto dell’omonimo studio di Parma, professore ordinario di Composizione architettonica presso la Facoltà di architettura dell’Università di Firenze; Accademico Nazionale di S. Luca e Premio Feltrinelli per l'architettura 2018 dell'Accademia dei Lincei; giurato italiano del BigMat International Architecture Award 2019.

A suo avviso, professor Zermani, quali sono le tendenze architettoniche che prenderanno piede nel 2020 e nei prossimi anni, fino al 2030?

Nel mondo attuale è in atto una deprimente dequalificazione dei valori morali e civili dell’architettura. Molto spesso non abbiamo a che fare con grandi architetti, ma semplicemente con grandi manager o, peggio ancora, con piccoli manager, bravissimi nell’uso dei media con cui comunicano, come i calciatori e i cantanti, le loro bizzarrie. In questo contesto molto spesso gli architetti bravi non coincidono con gli architetti più conosciuti, quasi mai con gli architetti più esposti mediaticamente. Affinché prevalga un’architettura vera, vicina ai valori morali, ci si dovrebbe augurare un’inversione di tendenza.

Ci sono dei materiali che stanno prevalendo rispetto ad altri? Se sì, quali?

La straordinaria evoluzione tecnologica costituisce una risorsa per l’architettura, un deposito di possibilità per gli strumenti del progetto e le prassi di cantiere. Ma non dimentichiamo che i materiali originari offerti dal pianeta non cambiano: la terra resta terra, la roccia resta roccia, l’acqua resta acqua, il cristallo resta cristallo.

E questo è il vero valore che può servire all’architettura, perché da esso l’architettura vera non può allontanarsi. La scommessa dei materiali si gioca ancora sull’elaborazione sempre più performante e raffinata dei materiali originari: solo loro contengono la verità.

Si delineeranno nuovi modi di abitare, nuovi modi di fruire gli spazi?

I segnali che ci giungono inducono a un grande pessimismo. Si osservino le urbanizzazioni in atto nei Paesi emergenti (la Cina per tutti): si tratta di veri disastri ambientali, ecologici, ma soprattutto culturali, magari conditi di quel tanto di falso ambientalismo di cui si riempiono la bocca i piccoli e grandi manager-architetti di cui parlavamo prima. Ma pensiamo anche alle città e ai paesaggi europei, ogni giorno attaccati nella propria identità millenaria dalla speculazione commerciale, ma anche dalla compromissione di progettisti che sembrano non rendersi conto di dove sono nati. Un nuovo modo di concepire lo spazio potrebbe nascere solo tornando a riconoscere chi siamo e trasmettendo il messaggio della modernità con questa consapevolezza identitaria.

Iper tecnologia o ritorno al passato?

Iper tecnologia e ritorno al passato, esattamente come i termini “conservazione” e “innovazione” tanto abusati dagli architetti, rappresentano i vertici di un discorso lontano dalla verità, l’uno senza futuro, l’altro senza passato, quindi superficiali e inutili. La tecnologia è una cosa troppo seria per farne uso indisciplinato e troppi danni si fanno ogni giorno nel suo nome, anche nell’architettura. D’altra parte, per definizione, la tecnologia ha origine e sviluppo dalla trasmissione temporale del sapere e quindi ogni vera tecnologia dipende dall’esperienza. La vera architettura può essere soltanto, ancora e sempre, figlia del tempo, elemento in cui passato e futuro si congiungono.

Dopo l’emergenza Covid-19 il modo di progettare cambierà?

Serviva forse questa tragedia per indurci a riflettere? Che il progetto vivesse da anni nell’amnesia e nel servilismo all’economia era chiaro da tempo. Ora siamo di fronte a un bivio. Basterà?

AMANZIO FARRIS

Amanzio Farris, vincitore italiano del BMIAA ’19.

Docente del Politecnico di Milano, membro del RE_LAB Laboratorio di rigenerazione, recupero, riqualificazione dell’Università La Sapienza di Roma.

A suo avviso, quali sono le tendenze architettoniche che prenderanno piede nel 2020 e nei prossimi anni, fino al 2030?

Come un auspicio mi auguro che i prossimi anni possano riservarci un panorama in cui la ricchezza delle interpretazioni e delle soluzioni progettuali sia il riflesso di elaborazioni culturali altrettanto ricche, dalle sfaccettature tali da non poter essere ricondotte ad alcuna tendenza prevalente.

Credo infatti sia preferibile uno scenario in cui i progetti possano trarre carattere e qualità dall’elaborazione delle condizioni specifiche – un luogo, un programma, una linea di investigazione e di ricerca – piuttosto che quello in cui si sceglie di sintonizzarsi su tendenze sviluppate al di fuori del tema e della circostanza.

Ci sono dei materiali che stanno prevalendo rispetto ad altri? Se sì, quali?

Spero che sempre di più possa essere riconosciuto il ruolo del pensiero che, sebbene intangibile, costituisce il materiale primo, in rapporto al quale possono assumere maggiore o minore valore i materiali concreti impiegati. In questo senso, quando scelgo i materiali cerco di farlo freddamente, valutando il loro grado di consonanza rispetto a ipotesi progettuali che tengano conto dei parametri coinvolti, come il luogo in cui si opera, il carattere della costruzione, i mezzi e le risorse disponibili.

Le possibilità tecniche o anche espressive di un materiale possono talvolta suggerire una ridefinizione delle intenzioni o dell’impostazione complessiva, ma questo avviene, almeno nel mio caso, durante lo svolgersi del processo progettuale, e non a priori.

Si delineeranno nuovi modi di abitare, nuovi modi di fruire gli spazi?

Credo che l’architettura possa essere in grado di interpretare mutate forme sociali o nuove esigenze abitative – anche di portata rilevante – solo se possiede coscienza di quel nocciolo duro di necessità umane che rimane invariato. Qualsiasi forma potranno assumere i mutamenti, permarrà l’esigenza fondamentale che ciascuno di noi esprimerà riguardo la scelta di un differente grado di intimità fornito dallo spazio.

Si tratta e si tratterà sempre di poter disporre di spazi in cui poter stare da soli – un luogo in cui poter leggere una poesia – o altri in cui poter condividere momenti e riti con la propria famiglia o con il proprio gruppo di affinità, e infine quelli in cui poter stare con gli altri nel vasto dominio dello spazio pubblico.

Chi progetta deve tentare di dare risposta architettonica a queste diverse transizioni tra privatezza e socialità offrendo le condizioni appropriate per soddisfarle e predisponendo le transizioni che devono accompagnare i passaggi da una condizione all’altra.

Iper tecnologia o ritorno al passato?

Non vedo contraddizione nella possibilità che entrambe – tecniche recenti e tecniche antiche – possano essere simultaneamente disponibili, ampliando il panorama delle possibilità di scelta di chi progetta. La diversità dei contesti dei programmi e delle condizioni e circostanze in cui si è chiamati a operare possono suggerire l’adozione di una piuttosto che l’altra, o verificare una combinazione tra le due. In ogni caso penso che i materiali e le tecniche più antiche, ribaltando una nozione comune, possano essere considerate in realtà come le più avanzate – in termini di efficacia, durata, valore espressivo – per il fatto di aver attraversato e superato le prove più impegnative di selezione e verifica fornite dal tempo e dalle esperienze accumulate. Risulta in taluni casi stimolante l’idea che si possa risolvere un problema contemporaneo di progetto facendo affidamento su materiali antichi, o tecniche magari arcaiche. In altri casi, poi, può risultare interessante anche l’impiego di materiali e tecniche particolarmente poveri, che costringono a un lavoro di invenzione per riscattarli – idee che nascono operando in situazioni di scarsa disponibilità – e che possono produrre risultati di un valore inaspettato, in cui la scabra e ruvida imprecisione di certe lavorazioni può offrire un’inedita eloquenza.

Dopo l’emergenza Covid-19 il modo di progettare cambierà?

Nel momento in cui rispondo a questa domanda, ci si trova nel pieno dell’attuazione delle misure di contenimento ed è molto difficile immaginare quando e in che modo l’emergenza potrà dirsi superata, e a quali cambiamenti assisteremo. In ogni caso, l’emergenza sollecita una doppia riflessione riguardante i due ambiti spaziali in cui la nostra vita si svolge.

Da una parte – causata dall’obbligata e prolungata permanenza – una rinnovata consapevolezza dell’importanza degli spazi delle nostre case, dei nostri teatri domestici: il fatto decisivo che la casa possieda oppure no delle riserve di dolcezza predisposte per chi le abita. Una stanza che riceve un raggio di luce, la chioma di un albero prossima a un balcone, una finestra che inquadra un frammento di paesaggio naturale o urbano, ecc. E poi la parallela consapevolezza, sollecitata in questo caso dall’indisponibilità, dell’importanza dello spazio pubblico che costituisce l’altra metà dello scenario delle nostre vite. Spazi domestici e spazi pubblici: che si possa tornare presto a godere di entrambi, e tornare a progettarli con maggiore intensità di significati rispetto a prima.

CARLO TERPOLILLI

Finalista italiano del BMIAA ’19.

Socio fondatore di Ipostudio e docente di progettazione architettonica presso il Dipartimento di Architettura DIDA di Firenze.

A suo avviso, quali sono le tendenze architettoniche che prenderanno piede nel 2020 e nei prossimi anni, fino al 2030?

La stessa domanda, posta solo due mesi fa, alla fine del 2019, avrebbe avuto una risposta diversa. Si sarebbe articolata partendo dai diversi fronti aperti intorno a cui si è esercitata la cultura architettonica in questi ultimi vent'anni. Avrei posto all'estremità di questi fronti il minimalismo razionale di Eduardo Souto de Moura e dall'altro il “blobbismo” anamorfico di Zaha Hadid, passando attraverso lo sperimentalismo tipologico di Jean Nouvel e lo sperimentalismo concettuale di Rem Koolhaas, fino al post-eclettismo di Herzog e De Meuron.

Questi anni '20 del XXI secolo sono iniziati con una pandemia, una crisi globale. Qualsiasi riflessione non può che partire da questo dato. Il resto è passato. Quello che accadrà dopo questa lunga crisi, sanitaria, sociale, economica e psicologica non è dato sapere. Possiamo solo ipotizzare.

Osserveremo, non subito, ma inevitabilmente, un cambio di passo; i fenomeni hanno bisogno di tempo per dispiegarsi completamente. Penso che prenderanno piede quegli atteggiamenti progettuali che avevamo già osservato negli ultimi tempi, atteggiamenti che guardavano con attenzione ai fenomeni legati all'ambiente, alla finitezza delle risorse, ai problemi della crescita economica e alla disparità sociale tra pochi ricchi e masse di poveri. Il dibattito architettonico, se pur a parole si occupava di queste istanze, nella sostanza non vi aveva dato molto credito; l'esempio è dato da quella ipertrofia estetica globalista e quello sperimentalismo internazionalista dove il tema dell'attenzione consapevole e della cura non ha certamente trovato spazio. La cura del paesaggio, la cura della città, l'attenzione all'architettura civile sono stati messi da parte dalle imposizioni dei modelli di crescita urbana senza nessun radicamento e anche senza nessuna attenzione a quei grandi fenomeni ambientali, sociali ed economici che comunque erano davanti a noi.

Penso che, a ben guardare, questa crisi pandemica potrà spazzare via tutto questo, forse lo ha già fatto. Cosa accadrà? Cosa possiamo immaginare per l'architettura? Quale tendenza? Possiamo solo ricordare a tutti noi, perché spesso la storia si ripete, magari non sempre uguale ma si ripete, quello che accadde dopo la Prima guerra mondiale: una crisi terribile, un mondo spazzato via da guerra, morte e povertà, ma, nello stesso tempo, in questo contesto nacquero le avanguardie artistiche e il movimento moderno in architettura, che rivolgeva la sua attenzione non più al fascino discreto dell'eclettismo e a quel delirio fascinoso di sperimentalismo estetico. L'attenzione si concentrò certo anche su un nuovo linguaggio, un linguaggio, però, essenziale, razionale, minimale, ma, soprattutto, impose questo linguaggio ad alcuni temi progettuali prima di allora poco percorsi. Il progetto pose al centro della sua attenzione i bisogni primari delle persone, la casa, la scuola, l'ospedale. Oggi e domani quello che faremo dovrà somigliare, a mio parere, a quello che fu fatto allora, ovvero, la riscoperta di valori collettivi come la condivisione, la compassione. Valori collettivi assoluti, che dovranno essere, per forza di cose, declinati anche in architettura e non solo nella vita civile.

Io non so, non credo alle profezie, e quindi non le posso fare: possiamo solo rivolgerci a quelle tracce e a quegli indizi che sono già nel terreno. Una cosa è certa, in questo tempo di sofferenze e di morte, dove sicuramente c'è qualcuno che diventerà povero e qualcuno, come nelle guerre, forse diventerà ricco, noi tutti sapremo che la salvezza e il futuro del mondo stanno solo nella consapevolezza di essere un tutt’uno: noi, con ciò che ci circonda. Per la prima volta abbiamo la consapevolezza che questa affermazione ha senso. Prima poteva essere, o sembrare, un'astrazione concettuale. Facciamo parte di questo granello che vaga nell’universo; dunque, un’architettura semplice, essenziale, attenta ai bisogni di base, che elimina il superfluo e rimette al centro il rapporto tra noi e il mondo. Io non so se andrà a finire così, forse è solo un auspicio. Quello che abbiamo conosciuto fino a oggi negli ultimi 20-30 anni, ovvero la rappresentazione in architettura di un narcisismo esasperato, apparterrà al passato, come le cose vecchie. Io lo spero.

Ci sono dei materiali che stanno prevalendo rispetto ad altri? Se sì, quali?

Proprio grazie a quell’eclettismo e allo sperimentalismo formale degli ultimi vent'anni, la gamma dei materiali usati si è ampliata enormemente, tanto da dare delle opportunità impensabili alla progettazione architettonica. Spesso però i materiali sono stati assoggettati a delle volontà formali non sempre congruenti con la finalità. In altri termini, il risultato conta più del modo con cui si perviene a esso. Spesso la texture o il colore vengono prima della natura e consistenza del materiale. Non si chiede al materiale cosa “vuole” essere, si impone a esso ciò che “deve” essere. Si impone al materiale, forzandolo, di fare ciò che non è nelle sue caratteristiche tecniche. Nello stesso tempo, la molteplicità degli atteggiamenti e dei linguaggi ha significato un uso di materiali che va da quelli innovativi, figli della ricerca tecnologica, a quelli tradizionali, magari usati in modo innovativo. Oggi la tecnologia riesce a fare cose straordinarie con prestazioni straordinarie, sia in termini di prodotto sia di processo, e soprattutto riesce a far sembrare altro da sé qualsiasi materiale, ovvero, materiali artificiali e innovativi che sembrano materiali tradizionali. Materiali tettonici tradizionalmente pesanti sia come immagine sia nella loro realtà specifica diventano leggeri e performativi anche più dell’originale, tali da poter dire che essi sono dei “falsi originali”, a tal punto è vera la loro falsità.

Si delineeranno nuovi modi di abitare, nuovi modi di fruire gli spazi?

Abbiamo scoperto in questi giorni, nella forzata clausura, quello che negli ultimi anni sapevamo, ma avevamo sottaciuto, ed è un'amara verità: lo spazio domestico, la casa, per la maggior parte delle persone è uno spazio angusto, ristretto, nato soprattutto per rispondere alle necessità notturne più che quelle diurne. Nell’edilizia sociale, la camera da letto è il luogo centrale dell’abitazione, ad essa è riservata la maggiore quantità di metri quadri rispetto al totale. Scopriamo oggi la necessità che non basta avere un tetto sopra la testa, per quanto sicuro, ma che la casa andrà ripensata, dovrà essere più flessibile, più adattabile e sicuramente, a parità dimensionale, più capace di trasformare il suo assetto dinamicamente, al fine di riequilibrare gli spazi di relazione e di socializzazione rispetto a quelli privati. In questi giorni stiamo sperimentando il lavoro da casa, lo smart working, un’attività che non era certo prevista nell’organizzazione spaziale della casa, ma era un attributo solo della casa alto borghese, il cosiddetto studio, appunto. Ebbene, come influirà tutto ciò nell’economia dello spazio domestico? La casa non è più il risultato di un modello di famiglia standard, ma un luogo che dovrà accogliere la diversità in tutte le sue declinazioni: famiglie standard, ma anche quelle asimmetriche e quelle nate da rapporti di amicizia, case sempre più per single, case di abitazione dove ciascuno potrà esercitare contemporaneamente la sua dimensione privata e pubblica grazie alle tecnologie nella comunicazione di massa. La casa dovrà uniformarsi alle nuove esigenze, come dare spazio agli hobby che sempre più riempiono la nostra esistenza, spazi e attrezzature per la cura del corpo, ma anche quelli per la mente, cucine sempre più attrezzate per l’esperienza nel preparare i cibi o, al contrario, spazi per consumarli senza produrli.

Iper tecnologia o ritorno al passato?

Non bisogna sposare una posizione piuttosto che un'altra, abbiamo grandi disponibilità di tecnologie avanzate e contemporaneamente abbiamo imparato a riusare quelle del passato. Un esempio su tutti: per quanto riguarda la necessità di isolare un edificio, possiamo usare, a seconda dei casi, sia prodotti e componenti figli della chimica, sia quelli naturali riproposti in modo nuovo e sperimentato. Oggi non possiamo trascendere dalla scienza e dalla tecnologia e dunque non può esistere, in quanto tale, un ritorno al passato. Un passato che certamente aveva in sé un uso razionale delle risorse ed evitava, attraverso l'esperienza, lo spreco e, inoltre, aveva imparato a riciclare, il tutto questo era però frutto di una bassa densità demografica e di un basso tenore di vita. Allo stato attuale bisognerà valutare caso per caso l'uso appropriato delle tecnologie innovative o tradizionali a seconda delle situazioni e dei problemi che avremo di fronte e che dovranno riflettere le condizioni di luogo e di tempo. Comunque, la progettazione architettonica avrà sempre l'obiettivo di realizzare le migliori condizioni di vita dei luoghi.

Dopo l’emergenza Covid-19 il modo di progettare cambierà?

Come accennavo prima, sarà necessario un ripensamento generale sui modi e le forme di fare architettura. Questo era già nell'aria e l'emergenza da Covid-19 sicuramente accelererà questo necessario ripensamento. Un ripensamento dovuto al nostro modo di pensare la realtà, di pensare il paesaggio e la città, che dovrà tenere conto dei limiti delle risorse e dei sempre più alti bisogni dell'umano e di ritrovare un senso della comunità e degli obiettivi comuni. Il confinamento, la clausura imposta, ha già trasformato l’organizzazione delle attività e del lavoro di studio. Stiamo imparando a gestire il lavoro in remoto, il lavoro da casa, stiamo imparando a colloquiare e a discutere telematicamente. Certamente torneremo a lavorare negli studi e torneremo al confronto diretto, ma questa esperienza e il modo come la stiamo vivendo potrà aiutarci a realizzare un modo di lavorare essenziale, chiaro, facile da comunicare. Quello che stiamo imparando è che dobbiamo essere più efficienti per essere più efficaci.

I problemi che abbiamo davanti a noi sono così complessi, così difficili, che la loro risoluzione è possibile solo a condizione di trovare un modo di lavorare collettivo, non potrà più essere narcisistico e autoreferenziale. Il modo di progettare dovrà trovare una misura necessaria e sufficiente a ritrovare un senso alle cose che facciamo. Abbiamo scoperto che siamo anche impotenti di fronte a qualcosa di invisibile, a qualcosa di così minuscolo, tale da umiliare la nostra superbia. L'affermazione di un super-io ipertrofico, che ha suggestionato buona parte della produzione architettonica recente, non credo che avrà futuro. Lo so che i cambiamenti avvengono solo quando non riusciamo più a fare quello che facevamo prima. Sono le crisi, i drammi, le tragedie collettive e personali che ci costringono al cambiamento. Solo allora siamo consapevoli di ciò che accade, e dunque, solo allora, siamo disposti a cambiare.

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